Mi faccio coraggio, dovevo iniziare a studiare, ma la voglia di scrivere è stata impellente.
Sabato scorso sono stata ad ArteFiera a Bologna per il regolare incontro dedicato al mercato dell’arte contemporanea, in cui i maggiori collezionisti si incontrano per dare adito alle loro più nascoste ferocità.
Spero di essere breve e concisa, poiché quello che mi preme dire è legato solo a pochi aspetti di quella giornata, iniziata prestissimo, finita tardissimo, e con residui di me lasciati in varie parti d’Italia, tra un viaggio di andata e quello di ritorno.
Se si va a guardare il significato del termine fiera, oltre a raduno di venditori ambulanti e compratori, troviamo anche al suo interno un lemma che indica un animale feroce collegato al suo sinonimo belva. Questi, dovrebbero essere segnali per capire la mia posizione in merito all’incontro.
La cosa più imbarazzante – emersa a chiare lettere – è la poca considerazione di avviare una visione che vada verso una nuova sperimentazione, magari vicina alla new media art – soprattutto se si parla di artisti italiani. Tanta pittura in crisi esistenziale; molti nomi che governano il mercato delle medie e grandi gallerie; le piccole o giovani, invece, fagocitate e imboscate in un programma relegato e fine a se stesso, senza nessun margine di spiraglio o con la voglia di presentare qualcosa di diverso, che non sia la solita pop art o quelle accozzaglie di commistioni varie vicine all’informale.
A parer mio la nuova frontiera italiana deve essere fotografica, lontana da schemi accademici di vecchio stampo, collegata a una visione antropologica, d’indagine, che si unisca a preparazione intellettuale valida, con dietro, quanto meno, la volontà di un pensiero di realizzazione basato su un progetto calibrato in un obiettivo stabile da raggiungere.
Basta con questi artistuncoli che vogliono entrare nel mercato per fare soldi. Basta con questo sputarsi e prostituirsi intellettualmente per un’idea d’artista che solo in pochi eletti – tralasciando i loro uffici stampa – possono raggiungere.
Mi meraviglio ancora una volta di chi decide di acquistare pezzi d’impatto, dai quali ci si può liberare subito, passato il momento dell’entusiasmo. Da “cane mangia cane” dovremmo un attimo aprirci e porci verso un “cane non mangia cane” (canis canem non est).
Inutile dire che viviamo in un blocco creativo. Il nostro mercato è fossilizzato sul grande movimento dell’Arte Povera teorizzato da Germano Celant nel 1967. Giulio Paolini, Zorio, Merz, Alighiero Boetti (anche se poi è andato verso il concettuale), Michelangelo Pistoletto, sono quelli più quotati, che assieme a Melotti, Fontana, De Chirico, Guttuso, Manzoni, si fanno avanti nelle sezioni eleganti e riversate a clienti esclusivi, dove ci si può sentire a casa, meno confusi, con qualcosa di concreto e meno effimero in mano. Un piccolo Paladino era in un angolo, solo soletto, per comunicarci che anche la Transavanguardia, di sfuggita, era presente.
Il distacco è netto nell’organizzazione degli spazi. E’ visibile nei colori scelti e nell’organizzazione e distribuzione delle aree; ciò – come ovvio – si riflette nella distribuzione di un pubblico che si contraddistingue per stili d’osservazione e d’acquisto completamente diversi tra loro.
Ottime occasioni per ottenere cataloghi a prezzi stracciatissimi, ottime occasioni per stipulare contratti d’abbonamento; rigetto totale per alcun riviste di settore che mettevano a prezzo pieno le loro pubblicazioni ultime.
Credo sia tempo di andare oltre. Iniziamo ad attendere la Biennale di Venezia prossima, curata da Massimiliano Gioni.
Ps. dateci la “relazionale”!!
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