E’ valsa la pena attendere l’incontro con il film di Amir Naderi, Monte (2016). Un lavoro in bilico tra forza e resistenza dove l’essere umano è posto in lotta con la sua stessa natura.
Un uomo vive con la sua famiglia sotto una montagna, addossandosene il peso. Nella mancanza di luminosità mantiene fede alla protezione dei suoi morti, in una terra dei padri, di figli, in un periodo indefinito. Molto farebbe pensare che tutto sia stato ispirato alle vicende dell’autobiografia del filosofo Agostino D’Ippona (Le confessioni), poiché il protagonista ne porta il nome, assomiglia a quelle pagine, a quella rabbia di quel mondo da attraversare, esserne consapevole. Gli abiti di scena, il modo in cui sono ricostruite le ambientazioni collocano l’intera situazione in un contesto medievale. È rinascimentale nelle citazioni, ricco di eresia e misticismo che si indossano ancora oggi, dove il credo religioso si contrappone a un ideale illuministico di progresso. La produzione sembra raccontare una crisi di due momenti storici, attraversati, perno e base di studio di intere ricerche scientifiche. Mostra la fine di un canone, modello perfetto, che rende la poesia di questo progetto visionario ai nostri occhi.
Parte fondamentale di tutto il girato è il rumore, inteso come rottura, un’anima che colpisce, scava approfonditamente per combattere un mostro, un potere alto, difficile da distruggere: il proprio. La sofferenza di un nucleo nello spingersi contro queste pareti insormontabili, abbatterle, corrisponde a delle urla femminili opposte, quasi ataviche, a delle carogne lontane che fanno da cassa di risonanza in queste fratture. Scene di interruzione che si interpongono, infieriscono sulla roccia, stabiliscono un ritmo cadenzato alle inquadrature. Una pietra metafora di vita, base e credo, dove la disperazione raccontata si incastona nei tentativi di compiere atti disonesti, autolesionistici, di tradimento, evidenti nell’umiliazione di una appropriazione di gioielli o un tentato furto di una semplice gallina, per ottenere possibilità in più, riscattarsi da un male profondo.
Se tutto parte dalla radice, a essa si torna. Seguendo le fila delle parole scritte lasciate in eredità da Giordano Bruno – da chi, cioè, nella sua verità è stato arso vivo a Campo dei Fiori a Roma nella metà degli cinquecento a seguito della condanna della Sacra Inquisizione – la raffinata esecuzione attoriale di Anna Bonaiuto, donna, lo rende ancora vivo, lo riscatta. Importante la sua lettura, fondamentale nella riflessione sulle proprie scelte, inserito in un momento che anticipa l’epilogo, sua fine, luce.
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