Da quando è accaduto che Chiara Ferragni sia andata a Firenze agli Uffizi leggo notizie più o meno utili sull’argomento.
Chiara Ferragni è un esempio di come una forma di lavoro può essere innovata e sviluppata partendo da se stessi e dalle proprie capacità e attraverso queste soluzioni ottenere risultati concreti in tutto il mondo, nel web come nella realtà.
Ci sono state due osservazioni che mi hanno interessato. Il punto di vista del professore Pierluigi Sacco su Facebook e quello di Christian Caliandro su Artribune.
Caliardo mette in luce un dato utile legato alla mia generazione. Io appartengo alla classe 1981.
Il bello dei nostri anni in giovane età è che tutto diventava stimolo partendo da cose che ci piacevano davvero e che portavano a spostarti, andare in un luogo dopo aver ascoltato un disco, letto una recensione che ci invogliava all’acquisto, alla scelta di quelli che oggi possiamo dire siano stati la rappresentazione, la costruzione e il modellamento del nostro pensiero critico individuale.
Il problema è qui, non nella discussione dei giovani o meno giovani, ma di chi è fuori dal mondo della cultura come fruitore attivo, di colui che non sa scegliere di comprare/fruire in modo consapevole quello che gli interessa davvero.
Il cuore del problema è il fluire di un pensiero critico senza incappare in giudizi e pregiudizi gratuiti da parte di chi dovrebbe occuparsi di cultura (in questo caso).
Quando leggo qualcosa da una influencer (creator) ottengo più informazioni di chi ha compiuto il proprio mestiere scrivendo un articolo o mostrando una foto. Significa che il danno sta nel leggere, nella buona parte dei casi, informazioni inadeguate, insignificanti o poco interessanti che generano nelle persone impotenza, il vincolo di rimanere immobili anche da un acquisto via social.
Quanti comunicati stampa sono rimodellati senza sforzo e piantati nelle riviste come se fosse tutto normale? Intendo dire che l’azione di acquisto può partire dal web, Amazon o altre piattaforme per il libro o un abbonamento su Spotify, ma siamo sicuri che uno storico dell’arte, un musicologo o un sociologo possano riuscire a comunicare bene con un potenziale lettore se usano una lingua lontana dalla realtà e tante volte egoriferita?
La differenza è nella persona, non nel titolo di studio, voglio specificarlo, vista l’aria che tira. Il problema è come questi professionisti, al posto di trasmettere empatia creano distanza in modo schiacciante sui potenziali acquirenti, argomentazioni che portano chi legge a sentirsi impedito e non spronato a reagire.
Parliamo delle mostre.
Quanti giornalisti o commentatori di cultura entrano gratis in un luogo? E perché dovrebbero farlo? Se si tornasse a pagare per la fruizione di una mostra, la figura del critico potrebbe tornare in auge?
Il mio scenario è questo: scelgo di andare in un posto, parlare di ciò che vedo senza la mediazione di nessuno, prendo un biglietto – pago – il fatto di aver acquistato mi permette l’autorevolezza di dire, cioè generare un mio pensiero critico o il miglioramento di un servizio. Giusto?
Perché uno che si occupa di cultura non dovrebbe farlo? Quale è il suo privilegio? Aver scordato di essere esso stesso visitatore? Ecco, vorrei capirlo, qualcuno me lo spieghi.
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