È da molto tempo che non affronto argomenti legati alla televisione. Ho deciso di dare una breve idea di quello che ho percepito da The young pope, la serie diretta da Paolo Sorrentino in onda su Sky Atlantic ogni venerdì dalle 21:15.
La cosa che mi ha colpito nelle prime due puntate è – senza ombra di dubbio – il riferimento a tre dei suoi film: Il Divo, Youth e La grande bellezza, dichiarati, in primo piano, in scenari ed estetica, nei movimenti degli attori. Il personaggio principale interpretato da Jude Law è invece la versione opposta, peggiore e aspra, di Cheyenne, cui ha dato volto Sean Penn in This must be the Place. Silvio Orlando (Cardinale Voiello) sembra l’alter ego del regista: lo è nei commenti, nel tipo di risposte che dà, nelle passioni che riserva al Napoli.
Mi sono trovata di fronte a una introduzione di più stesure cinematografiche unite a un progetto che secondo i miei gusti ha il suo solito genio nella ironia, nel grottesco.
La storia narra la nomina di un giovane come guida della chiesa cattolica romana. Figura difficile, modello di espressione perfetta, mediatica e ambiziosa, che ha tagliato le gambe a colui che lo reso una figura così anaffettiva, cinica e manipolatrice nella salita al potere, il Cardinal Michael Spencer (James Cromwell). Una macchina da guerra, il nuovo papa, che stabilisce la sua linea all’interno di contesto, abolendo la visibilità della sua immagine ai fedeli, rendendosi dio, come faceva Hilter, nella creazione dei suoi incontri pubblici pianificati in notturna, poiché conscio delle potenzialità di un valore accrescitivo e sottrattivo nella comunicazione, nella costruzione del consenso. Gestisce tutto, lui, secondo il colpo subito: il tradimento.
I conflitti sono costruiti come reti dichiarate e potrebbero essere da subito comprese alcune dinamiche.
Lenny Belardo (il papa) è cresciuto in una comunità cattolica americana assieme a un altro ragazzo, anche lui prete/missionario, che guarda al divino in maniera speculare, quest’ultimo punta al caso concreto, sfruttando il silenzio e seguendo un esercizio di impegno. Entrambi orfani, da bambini, sono stati guidati secondo l’esempio di suor Mary (Diane Keaton), madre, modello di accoglienza e riferimento, guida approdata in vaticano su volontà espressa da sua santità Pio XIII, fresco di nomina.
Invidia.
Nel dialogo serratissimo che avviene tra Silvio Orlando e Jude Law si rivelano le assurdità di un presunto meccanismo. La messa in crisi di rituali ed etichette, l’impostura e la calunnia, da sviluppare nella gestazione di una situazione di comando, dove soldi e potere sono le mete più ambiziose.
Superbia e Lussuria.
Un mix di vizi capitali e virtù teologali, insomma, che non voglio toccare in profondità.
Penso sempre al finale della Grande bellezza: quella suora che sale le scale in ginocchio nel pieno della sua umiltà, penso sempre a come Jep Gambardella abbia messo nella sua esistenza una distanza, col suo lavoro, pensando e ripensando alla donna della sua vita. Donna, persecuzione, immagine divina, come venere, venere di stracci, donna cui tenere una mano per riprovare antiche emozioni (Youth), miss e modella, giovane, sfida, grande madre deforme da ammirare: Venere di Willendorf.
Devozione e massoneria. Logge.
Sorrentino rimane buono d’animo, seppur sappia giocare bene di presunzione. Potrei farmi viva a fine serie, per capire, magari, se c’è stata o meno l’evoluzione positiva, se ci si muove per andare verso questo. Al momento continuo a studiare l’intreccio.
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