Pubblico prevalentemente femminile al cinema per vedere Reality, il nuovo film di Matteo Garrone, uscito venerdì scorso nelle sale.
Strano. L’aggettivo qualificativo positivo che mi sento di usare per definire la sensazione che ho provato nell’osservare la pellicola.
Fabulatorio, onirico, teatrale, mi ha portato in una dimensione straniante, grazie a una colonna sonora da urlo, talmente indicativa, da far rimanere incatenati alla poltrona, fin dai primi minuti, i pochi spettatori presenti.
Federico Fellini, Vittorio De Sica, Eduardo De Filippo affioravano nei miei pensieri osservando una Napoli strepitosa, barocca ed escheriana; restituita da un gioco di luci in notturna che elevava al top il suo splendore, e con una cura massima della fotografia che spogliava gli ambienti da quell’alone di sudiciume camorristico, restituendole una grandezza spirituale e architettonica che le è sempre appartenuta.
Le immagini della contemporaneità si coniugano con le opere di Martin Parr, gli scritti di Marc Augé e Bauman.
Non è un documentario, ma un film di fiction concentrato sulla massificazione. E’ un’analisi sprezzante di un paese che ha perso l’identità e il colore, rimanendo incantato dall’inutilità.
Ho avuto l’impressione che molte delle riprese fossero fatte con camera a mano, vista la traballante precarietà delle immagini.
Il dubbio (o la curiosità) più grande che ho, è di una inquadratura fatta durante i provini per le selezioni del Grande Fratello a Roma. Garrone fa una carrellata sui partecipati spostando lentamente la camera verso l’ingresso e la scritta Cinecittà. Dove voleva guidarci, e in quale realtà?
Frase (inutile e ossessiva):
“Never give up”
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