Mi sono accorta di questo progetto Netflix dopo i mille commenti del critico Jerry Saltz sulla sua pagina Instagram. Alla luce della visione, lo capisco: il film risulta essere una boiata pazzesca, spinto verso una concezione di arte costruita come una allegoria di serie B ben fatta.


La storia narra la vicenda di un artista morto, di cui sono scoperte le opere grazie a una giovane assistente di una potente galleria di arte contemporanea. Si tratta di un thriller che lega alcune figure di professionisti all’interno di una catena maledetta di eventi che portano a un unico risultato: la morte di chi tenta la mercificazione e lo scambio dei suoi lavori. L’immaginario costruito dal regista è per questo surreale e predispone l’osservatore a una visione distorta della realtà, dei mille aspetti che depotenziano il ruolo delle figure che ruotano attorno al mercato dell’arte.


Rivela, per questo, un sistema malato fatto di minacce e tradimenti, di arrivismo e inutilità, che toglie valore alle molte intelligenze di quei professionisti che credono nel valore del loro mestiere. Seppure sia vero che questo settore abbia delle pecche, fare di tutta erba un fascio è ridicolo, ma quello che stupisce di più è come sia stato costruito il ruolo delle opere in relazione alle vicissitudini della vita dell’artista.


Siamo abituati a conoscere aspetti che sublimano le opere attraverso la restituzione di immagini che mettono al centro il bello, la pulsione di una persona che nella realtà dei fatti ha difficoltà a manifestare i propri sentimenti più puri – basti pensare a Caravaggio e come ha avuto una vita difficile, ma allo stesso tempo alla magnificenza delle sue pitture. Quello che accade in Velvet Buzzsaw è al contrario un chiaro tentativo di alimentare e perseguire l’idea di una figura che sia brutta dal vero e che persegue la sua violenza attraverso i lavori che prendono vita verso chi compie imposture nei loro confronti tanto da rendere l’intera visione buffissima. Quello che ne esce fuori è un quadro di uomini e donne piene di sé, soffocate dalla loro superbia senza limiti, dove è sottratta la poesia dell’arte.


Allora che senso ha vedere un film quando tutto è rannicchiato in una bolla che occlude la visione? Il più punito tra tutti sembra essere il critico interpretato da Jake Gyllenhaal e il più povero John Malkovich, maestro puro la cui ispirazione è bloccata.
Chi ha avuto la sfiga di vederlo?
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