Uno o più anni fa ho visto una serie su Netflix che raccontava cosa accadeva in Polonia dopo gli attentati di Varsavia, si chiamava 1983.
Mi rimase impressa per via della costruzione distopica che faceva di un mondo parallelo, di come mostrava il continuo lottare di posizioni politiche di destra e di sinistra con l’uso delle tecnologie.
Hater ha in comune con 1981 le innovazioni. In questo caso, diventare creator di fake news per i social network con lo scopo di abbattere una élite e alimentare i fascismi attraverso realtà parallele che arrivano a coinvolgere il mondo del gaming.
Quello che stupisce tra questi due progetti è la scelta dei protagonisti, sempre giovani, maschi, studenti in legge. È come se alla base di questo sentire polacco, esista sempre la funzione del diritto come chiave fondamentale che regola il comportamento della società, di ogni individuo singolo cresciuto in quel paese.
Hater ha una struttura molto semplice. Un ragazzo cresce nella campagna polacca, arriva in città dove esiste una famiglia che gli offerto supporto e sostentamento economico fin da bambino. È innamorato della loro figlia più piccola, che lo tradisce su una confessione, dopo che entrambi hanno fatto uso di droghe.
Il tradimento genera una spirale di odio che ribalta ogni possibilità di vedere la società in una maniera costruttiva. Come se tutta quella morbosità ossessiva, che era una amore, si ribaltasse fino a creare una ribellione che genera morti e dolore continui.
Per certi versi il film ricorda Elephant di Gus Van Sant e Arancia Meccanica di Stanley Kubrick. Il progetto inoltre sfrutta l’arte contemporanea come mezzo per raccontare la società europea, le migrazioni, le neuroscienze, sfrutta l’Inno alla gioia di Beethoven per segnare la fine di un progetto politico che riguarda questa parte di occidente.
Il film è adatto a chi ama la storia, si occupa di marketing e comunicazione, guarda alle nuove tecnologie come strumenti campanello di narrazioni per il futuro.
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