Sono tornata al cinema dopo due anni, la sala era la stessa, poche persone alle ore 18. Incoraggiata quando ho visto che davano il film di Mario Martone, Qui Rido io, in mezzo a una programmazione concentrata per chi è ancora dentro la dimensione estiva tra commedie semplici e film horror.
La storia raccontata è di Felice Sciosciammocca, un personaggio che cerca di rimanere nella storia della tradizione teatrale napoletana e che combatte l’incardinamento lasciato dalla figura carnevalesca di Pulcinella. Siamo nella Napoli degli anni ’10 del Novecento, in uno scontro che coinvolge due figure molto simili tra loro in una guerra di diritti che si combatte tra Gabriele D’Annunzio ed Eduardo Scarpetta – autore e attore di punta della scena campana di quel tempo, e qui, protagonista interpretato dalla magia di Toni Servillo.
Il film parla della lotta l’attore e il pubblico, in realtà, di amore e odio su chi stabilisce cosa rimarrà nella memoria del teatro, dove a inserirsi nello sviluppo della sceneggiatura, interviene l’espediente dettato dalla ferocia di Gabriele D’Annunzio assieme all’arguzia dallo studio di Benedetto Croce sui termini del ribaltamento dedicato alla parodia. Il rimescolamento che può avvenire anche in un’aula di giustizia, quando le parti sono chiamate in causa, tra accusa e difesa, a raggiungere una presunta verità attraverso uno scontro dialettico.
Dietro questo progetto c’è anche la vicenda che interessa i fratelli De Filippo: Eduardo, Peppino e Titina, che oltre a rimodernare il teatro contemporaneo, nel progetto di Martone, stabiliscono con un semplice gesto di richiamo, a chi serve il teatro: a chi è libero ed è capace di uscire dalla sua trappola personale con l’interpretazione di una vicenda che può offrire molte possibilità di sentire e comunicare ciò che si è nel profondo.
Quando si è al cinema durante la visione si ha la percezione di dialogare direttamente con l’attore di punta, quello che è nel mezzo – le vicende, la farsa e lo schermo che padroneggia la sala – sono solo una via di mediazione. Il confronto è tra noi, quel personaggio e il potere del ribaltamento, che passa anche dal trasformismo e alle molte risate sferzanti costruite in situazioni di umiliazioni e continue sottomissioni e vessazioni che sono veri e propri abusi.
Scenografia, fotografia e rimandi alla storia dell’arte e del cinema sono molti potenti. La lingua è il dialetto napoletano, a supporto di chi guarda, i sottotitoli in italiano. Le donne appaiono del pieno del loro disagio in una categoria quasi inutile: si proteggono in una comunità di figli, tra una sopraffazione e l’altra, in nome e in difesa di un ego di cui non abbiamo più bisogno, ma che è stata una parte di questa immensa tradizione del secolo scorso che oggi possiamo guardare con molta distanza.
Buona visione!
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