Anche questa settimana faccio il punto sulle osservazioni di Vincenzo Trione su La Lettura.

Questa volta pone l’accento sui musei di arte contemporanea. Su come debbano rilanciarsi in questo momento di crisi per ottenere nuove opportunità di sperimentazione relazionale verso le comunità attraverso opere di arte pubblica.
L’articolo concentra il punto di vista su una maggiore apertura verso questa pratica di condivisione, una attenzione verso un tema che da anni è toccato da curatori, critici e architetti, in diverse città del mondo, d’Europa e italiane.
Partiamo dal presupposto che questo punto di vista può essere condivisibile.
Quanto nell’immediato?
Se la settimana scorsa il suo articolo si concentrava sulla tutela degli artigiani e gli operatori che lavorano nei campi artistici oggi in piena crisi, come si può pensare di creare soluzioni di questo tipo adesso? Chi le fa? Come? Il Mibact potrebbe appoggiare questa visione? Quali e quanti istituti culturali pubblici selezionare? In quanto tempo? Non è una perdita di tempo e denaro?
Tra le tante domande che pongo, mi chiedo come possa un museo con introiti ridotti – o azzerati – pensare di tenere attiva una collezione permanente e lanciarsi in una avventura di questo tipo con la possibilità di un aiuto ministeriale.
Se fossi un direttore di museo, farei di necessità virtù: ripenserei lo spazio, le opportunità che esso può dare; il pubblico, le persone potenziali che possono – e devono – tornare ad attraversare le sale nella doppia capacita di stare nel reale quanto nel virtuale; puntare sul virtuale per immergersi nel reale.
Se spingo le mie forze all’esterno, le persone quando torneranno a vivere quegli ambienti unici ed esclusivi?
Il contemporaneo sarebbe un oggetto vecchissimo se rimanesse nel silenzio di un non vissuto, sarebbe come andare a puntare un coltello al cuore di una persona sofferente prossima alla perdita dei sensi.

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