Tra i confini. Città, luoghi e integrazioni – M. Augé [saggio]

Da diverso tempo non scrivo di libri, un po’ perché sono rallentata, un po’ perché è difficile non dilungarsi nella saggistica. Ne approfitto oggi poiché ispirata dal tempo non bello per aprire uno spiraglio sul testo di Marc Augé: Tra i confini. Città, luoghi e integrazioni.

La scelta del piccolo volume è dettata dal caso. Avevo bisogno di leggere qualcosa sulla menzogna letteraria, ma l’occhio ha indicato questo testo da qualche tempo acquistato mai affrontato. Il saggio è una raccolta di due interventi pubblicati dall’editore Bruno Mondadori nel 2007. Le due posizioni assunte dall’autore sono molto simili. La prima è intitolata Un mondo mobile e illeggibile, mentre  la seconda, La conquista dello spazio.

Non mi soffermo sull’ultima parte poiché non mi ha colpito particolarmente; essa sembra un rendiconto di azioni dello studioso sull’attività dell’etnologo, così – sebbene abbia un titolo accattivante, mi decido a una riflessione sulla prima delle due suddivisioni.

In Un mondo mobile e illeggibile egli parte da tre presupposti:

  1. l’idea di urbanizzazione;
  2. accecamento generato dalle immagini;
  3. la questione mobilità sociale.

E’ molto schietto nelle sue posizioni e dichiara che su certi temi il pensiero è stato influenzato dagli studi del filosofo francese Paul Virilio (Bomba informatica, Cortina, 2000). Nella prima questione la sua logica si stabilisce sulla globalizzazione e afferma più o meno questo: se da un lato il mondo si connette in una utopia di scambi e libertà generali dedicate all’individuo, dall’altro, esso, si trova a relegare una porzione di popolazione fuori da queste congiunture incrociate, sottomettendole.

In questa condizione storica credo che un simile intervento è necessario poiché il ragionamento induce a pensare a quello che succede in Francia, di tutta la sovraesposizione mediatica che si sta avendo da giorni, su questioni che non si riescono a comprendere poiché depauperati da analisi critiche concrete.

Esiste una realtà connessa e un’altra disconnessa, entrambe filtrate nell’immensa sfera dell’urbanizzazione. Le nostre città sono vivibili, funzionali, piene di reti di comunicazione interconnesse e interscambiabili, hanno una popolazione nella quale spesso confluiscono cittadini provenienti da altri paesi; esiste cioè chi è costretto a emigrare per trovarsi una situazione migliore e aver maggiore sostentamento per la propria esistenza e chi ha vantaggi su ogni singola cosa. In un contesto cittadino tutto si mescola e diventa un gioco eterno tra ricerca della perfezione, distruzione e controllo della violenza.

La nostra epoca è mossa dall’azione delle immagini, facebook ne è l’emblema massimo nelle condivisioni. Siamo così esposti a vivere un immaginario alternato in cui si creano dei dislivelli illogici di comparazione. Augé parla di accecamento, una non visione che passa anche dalla commistione dei linguaggi che evolvono alla ricerca di un neologismo effimero, quanto rischioso poiché non più comprensibile. Essere costretti a subire tali azioni comporta un aumento della paura della non conoscenza e una suscettibilità verso alternative forme di aggressività. Nelle grandi immigrazioni degli anni settanta sono arrivati ad aversi nuovi cittadini, questo ha comportato occupazione, lavoro, approdo di intere famiglie e novità nelle forme di  intolleranza. Nel cuore degli anni ottanta quando la crisi ha di nuovo morso, delirio e caos.

Come accadde (accade) in Italia, anche in Francia, a subirne i contraccolpi sono state persone meno abbienti, ma anche gli stranieri, poiché accomunati dallo stesso disagio. Un altro elemento da tener conto e non sottovalutare sono le cellule di terrorismo internazionale che potrebbero scatenarsi. L’autore si sofferma sul rischio elevato delle popolazioni giovani in ascesa, come quelle mediorientali (l’Iran ha, ad esempio, una percentuale di diciottenni equivalente al 60% della popolazione) in contrapposizione alle nostre vecchie società.

I mass media in tutto questo hanno ruolo cruciale poiché incrementano il disagio concentrandosi su situazioni non di certo favorevoli – era già successo l’attentato alle Torri Gemelle e oggi nella condizione parigina – che al posto di alimentare tolleranza manifestano disagio e fallimento. In questo caso egli suggerisce di guardare e avere come modello quello della Francia. Se venisse testimoniata la condizione delle banlieue, diversa, concentrata nella valorizzazione delle azioni che si fanno, dove esistono esempi positivi di volontà che agiscono alla luce della legalità al fine di migliorare la propria condizione civile di essere umano, tutto potrebbe già apparire migliore di cio’ che ci è proposto.
La televisione – e i mezzi di comunicazione in generale – creano così un movimento ondulatorio concentrato nella sclerosi, nella chiusura e nella costruzione reale e ideali di ghetti. Secondo l’autore una delle possibili condizioni affinché si manifesti un miglioramento è quello della mobilità sociale.

Dettaglio interessante del ragionamento è anche la composizione dei nuclei abitativi di Le Corbusier, a Marsiglia. Pensati per una città ideale, e frutto di una visione politica utopica, ciò avrebbe potuto rappresentare un germe nocivo nell’immaginario collettivo di funzionamento concreto alle cose, un pensiero di questo tipo non avrebbe portato vantaggi, se non – mi sembra di capire – a un’altra ghettizzazione e isolamento degli individui.

Penso alle strutture del Corviale, a Roma, e mi immedesimo nella realtà italiana.

Soluzione è promuovere l’istruzione. L’arma è la cultura che deve smuovere le coscienze con la formazione degli individui. I paesi che detengono il potere dovrebbero investire essi stessi in progetti scolastici da esportare altrove. Essere modello per accrescere la dimensione umana dell’armonia: è questo che è suggerito dalle sue parole.

Se si pensa che siamo stati noi europei ad aver creato il concetto di colonizzazione, aver esportato anche le nostre migliori eccellenze, ma allo stesso tempo aver ottenuto in cambio una cancellazione dell’idea base di questo fondamento, dovremmo ripensarci in modo serio e dettagliato, per far affiorare piani costruttivi di crescita. La città è il caos nel quale si racchiude il fenomeno di castrazione, che si vive giornalmente, e per evitare l’implosione, occorre assumersi responsabilità in cui l’Europa si dichiari capofila nella ricostruzione.

Il ragionamento sembra felice, ma il pensiero che mi condiziona è  uno:
è davvero immaginabile compiere una scelta nel vecchio continente quando tra gli Stati c’è una forte dispersione di risorse e di livelli di civilizzazione?Se esiste una ammissione di questo tipo allora è possibile avere nuove possibilità.

marc_augé

6 risposte a “Tra i confini. Città, luoghi e integrazioni – M. Augé [saggio]”

  1. Ho avuto modo di leggere Augè in altri momenti e in merito soprattutto ai non-luoghi. In questo tuo breve excursus mi confermi che il pensiero dell’antropologo francese è in stasi ormai ventennale. L’analisi da te citata si leggeva a fine anni Novanta un po’ ovunque. Poi il discorso sull’istruzione è emblematico: non usciremo dall’impasse con l’istruzione perché perpetua un modello sociale ormai superato. Bisogna trovare nuovi strumenti di mobilità.
    Scusa se mi sono dilungato. Sempre piacevole passare di qui.
    Ciao

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    1. Grazie mille. Non ti sei dilungato affatto. In molti considerano Augé datato.
      Per una realtà come la Francia sicuramente, io però lo trovo attuale nella considerazione italiana. L’istruzione non è mai abbastanza mai lo sarà per i prossimi anni. Sicuro è che l’impasse è davvero uno scoglio.
      Oggi però questi strumenti di mobilità quali possono essere? Dico proprio allo stato delle cose. Ogni società (legata a una determinata Nazione) dovrebbe avere un’idea idea lucida del proprio essere. In Italia c’è? noi cittadini la abbiamo?

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      1. Devo specificare: l’istruzione come è stata concepita fino ad oggi non ci farà uscire dall’impasse perché pensata per un tipo di società che oggi non trova più riscontro nella realtà. Un modello di mobilità che mi lascia abbastanza perplesso è quello dell’essere imprenditori di sé stessi. O le startup (fondate più su una mitologia che su risultati concreti). Però sono soluzioni che coinvolgono saperi non più legati alla didattica tradizionale. Non so se sono uscito dal sentiero che avevi tracciato tu.
        Certo è che un’idea lucida non ce l’abbiamo. Però sarebbe già tanto prendere atto che il modello è obsoleto.

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      2. Scusami, rispondo solo ora poiché fuori regione e senza pc. Concordo su quanto dici. In altri momenti storici il modello del “self made man” avrebbe avuto riscontri diversi. Oggi è l’esasperazione più totale, nel senso che tutti possono farlo attraverso i mezzi di comunicazione. Bastano 3 selfie, mosse giusta, gente giusta. Costruzione di consensi, insomma. E’ triste perché io credo ancora nei valori di partecipazione e condivisione, quelli che vengono fuori da questo tipo di logiche, quelli che dovrebbero maturare in seno alle nostre singole responsabilità.
        Sì, non abbiamo un’idea lucida, ma ammettere i nostri sbagli è un punto di inizio.

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  2. Un filosofo molto in auge… 🙂

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