Non mi trovo particolarmente simpatica questa settimana, i libri di narrativa che sto leggendo non danno molta armonia, per questo ho deciso che lascerò del tempo affinché siano smaltiti a dovere, capire se meritevoli di un’opinione che possa lasciare qualcosa di sensato mia alla vita.
Ultimamente, sempre più spesso, ho preso quel vizio maledetto di vendere quelli che non hanno contribuito a nulla. Tessera al mercatino dell’usato per un valore che ora è abbastanza alto, che mensilmente genera introiti insospettabili, pronti per essere investiti in benzina, vinili o cianfrusaglie di vario tipo.
Smaltisco perché penso che certe cose siano realizzate per puri scopi di lucro, allora credo che debbano tornare su quella via, svalutati e maneggiati, rimessi in circolo sulla strada, il mercato che ce li ha propinati. Tante volte mi soffermo sul fatto che potrei donarli a qualche biblioteca, ma subito dopo l’idea balenata si neutralizza dalla mente in men che non si dica per via di un sentore di minima responsabilità. Capita anche di essere curiosi delle scelte degli altri, faccio spesso un giro nei vari settori, cerco di immaginare la logica secondo la quale persone come me abbiano deciso sbarazzarsi di un loro passato. Ad esempio, a 2, 60 euro, diverse settimane fa, ho trovato un catalogo di un concorso fotografico del 1981 edito da Agfachrome Master.
Il colore è un’opinione è un volume dedicato alla fotografia.
E’ una raccolta di scatti analogici amatoriali selezionati da un gruppo di professionisti che al tempo si cimentarono in un concorso nazionale mirato su volontà della Afga. Esperimento, progetto, che vide al suo interno testi utili scritti da nomi di rilievo quali: Franco Storaro, Gabriele Mazzotta, Antonio Arcari, Mario De Biasi, Franco Fontana, Michele Ghigo, Giuseppe Turroni, Lanfranco Colombo.
Uno dei tanti dati positivi è la affermazione di aver voluto fare una azione critica in merito a tutto quello arrivato dai partecipati. Si percepisce molta insofferenza nel corso della lettura, c’è chi addirittura evidenziava il caos nato attorno a questa selezione: un presunto scandalo sulla sponsorizzazione per la vendita dei materiali. In pratica un privato che diventa promotore di un’azione presumibilmente culturale.
Nei primi anni ottanta doveva essere stata vista come una sfida, un demonio in forma, dopo aperte ribellioni volute in difesa delle collettività nel decennio precedente.
In realtà la situazione che ne esce è molto chiara: cambia lo strumento, si perfezionano i mezzi, le macchine, ma il messaggio rimane invariato. Nel senso che tutti gli aderenti, dilettanti della tecnica, per fare la differenza, catturavano istantanee di piante, fiori e soli al tramonto con l’idea di essere originali – come accade coi social network oggi (Instagram). Un altro elemento rilevante è anche il concetto di imitazione: propinare a una commissione di professionisti atteggiamenti di osservazione sfruttati da grandi nomi di rilievo che hanno segnato un momento preciso della storia, con l’assunzione di un determinato gesto per sentirsi vincenti quando in realtà si è stati mediocri. In aggiunta, la chiusura e la scarsa presenza di operatori all’estero capaci di cogliere cambiamenti e prospettive con occhio analitico.
Alcune raccomandazioni appaiono sagge, si suggerisce di cimentarsi in prove su fatte sulle inquadrature con pochi elementi inseriti o dedicarsi giornalmente al linguaggio e all’esericizio. Esiste anche un piccolo focus di come all’interno dei circoli fotoamotoriali ci sia stata una attitudine alla sperimentazione, riportando in breve i cenni dei percorsi di Gianni Berengo Gardin o Mario Giacomelli, e di come la fotografia degli anni settanta sia passata dall’essere sociale e poi ossessivamente privata.
Spunti che rimettono in gioco molte cose, soprattutto negli atteggiamenti. Penso ai quanti come me abbiano cellulare in mano e vagano. Nel caso dei selfie potrebbero venir fuori mille interpretazioni differenti, in primis quello di uno studio sul mito e le sfaccettature dell’autorappresentazione on-line.
Ho trovato paradossale questa parte, profondamente attuale.
In meno di ottanta pagine, la cui maggioranza composta da immagini, ho scoperto un concentrato di informazioni fresche, seppur ovvie per chi è del mestiere, e mi chiedo se al posto dell’utente che lo ha abbandonato avrei fatto la stessa cosa.
Certe volte è meglio radicalizzare, scegliere e non guardare più al passato, ripristinare un ordine a costo di perdere qualcosa che si è ritenuto prezioso incastonato nella melanconia.
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