Non sapevo che fotografia scegliere, così sono andata su un volume tradizionale e fondamentale per chi studia i sistemi artistici: La nascita delle mostre di Francis Huskell (Skirà, 2008).
Lo faccio dopo aver riflettuto per alcuni mesi in silenzio, senza visita a uno spazio o a un museo. Ho guardato il web, ho cercato di capire che potenzialità avesse la rete per le gallerie, cioè quelle che hanno avuto il coraggio di lanciarsi e non rinunciare a una fetta di mercato conquistata nel tempo, nella pratica, con la tenacia, in un settore di mercato durissimo da conquistare.
Mi sono interessata di capire come cambiava la mia percezione in relazione alla interazione con un’opera d’arte, un lavoro di un artista che ho conosciuto dal vivo e che ho visto trasportato sul web in un momento di necessità estrema, anche per ripensare il mercato dell’arte in vista di un blocco che al tempo sembrava interminabile.
Il rapporto con la Viewing Room è stato una curiosità iniziale per me che ho sempre interagito con il pubblico nel tradurre l’arte contemporanea a chi dice di non riuscire a capirla. Un esperimento di osservazione stimolante e rinnovato che ho trovato molto interessante, ma con molti limiti oggettivi.
I comunicati e le fotografie girate dagli uffici stampa offrono già indicazioni precise su cui si basa una mostra. In questo caso, il discorso è diverso, un cambio radicale per un visitatore potenziale di arte che si trova da solo a praticare un’esperienza in un’altra forma di galleria, con un linguaggio, secondo lui, inaccessibile.
Partiamo dal presupposto che un pubblico non interessato non sceglierà di gettarsi in questa osservazione né dal vivo né sul web. Parliamo di chi è abituato a visitare uno spazio e si trova, senza supporto mediato, a relazionarsi con dei lavori che potrebbe essere intenzionato ad acquistare on-line.
Alcuni mesi fa, Monitor Gallery (Roma, Lisbona, Pereto), si è lanciata con una mostra programmata e dedicata a Ian Tweedy, artista che pratica la pittura, immerso nella realtà americana, tedesca e italiana, parla di lavori che richiamano il graffitismo, si concentrano verso la pittura con una concezione di visivo che passa sempre da una memoria condivisa e costruita per frammenti.
Cosa è cambiato?
Il rapporto con la dimensione.
L’impatto con la tela. Io posso identificare un soggetto, trovare una forma di identificazione collettiva di taglio storico o artistico, ma non arriva la potenza del lavoro. Tutto può essere concentrato in una immagine, ma non basta, il punto di vista non è mai unico e frontale, neppure in una proposta pittorica.
In questo caso della Monitor, la curiosità che non ho assaporato è stata la relazione con i quadri pensati in pochi centimetri perché il mio occhio è abituato a conoscere i lavori di Tweedy con una base strutturale di oltre due metri.

Il colore.
La materia pittorica trova la sua efficacia nel vissuto. Se noi facessimo un salto da uno smartphone verso uno schermo di un PC, quella stessa opera risulta sempre diversa.
Il che è positivo, io ho una materia falsificata da immagine fotografica che impone una nuova lettura, ma ho la sua esclusività solo nella effettiva pratica della visita in galleria.
Il punto è che questa mostra è terminata, l’aura che le apparteneva in quella dimensione esclusiva le è stata negata.


Quando parlo di aura, uso il termine facendo riferimento a Walter Benjamin.
Il plus di questa mostra era proprio nella unicità di vedere opere pensate in formati di libri, cover, raffigurati personaggi più o meno identificabili e in coro. Una sorta di biblioteca personale, del visivo, organizzata in sequenza concettuale, con mille rimandi alla storia dell’arte, della letteratura, della società, in termini di costruzione di linguaggio.
Un peccato, averla persa, ma una enorme possibilità di riflessione per l’avvenire, per il pubblico, i collezionisti, per le interazioni on-line, off-line: on-life.
IAN TWEEDY
Arrangements of Forgotten Stories
Viewing Room
Monitor Gallery
Roma | Lisbona |Pereto
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