Da pochi giorni sono tormentata, girano su tv, giornali e media di ogni tipo, pensieri, parole opere e omissioni legate a questa serie che ho visto il giorno della sua uscita.
Sanpa di Cosima Spender è uno squarcio sull’Italia nascosta, messa a nudo da una lettura di questo Paese che si fa finta di non voler riconoscere e mostra aspetti comuni ai tempi che stiamo vivendo per quanto riguarda il discorso sulle dipendenze.
Si è di fronte a docu-serie complessa. Ci si rende conto di quanto quegli anni siano alle nostre alle spalle, ma presenti perché taciuti e considerati inconfessabili. Composta da 5 puntate di un’ora ciascuna, rappresenta un quadro storico preciso, racconta più contesti che partono dagli anni 70, agli anni ’90. Legami con il mondo della politica, delle mafie, dell’economia, delle arti, i teatri in cui sono inscenati discorsi sui quali non eravamo pronti mai, come prima d’ora, ad affrontare, perché incapaci di quella osservazione valida per essere definiti maturi.
Il tradimento. Uno dei fedelissimi viene meno a Vincenzo Muccioli, escono i primi scheletri di una metodologia basata sul trauma, sulla mancanza di libera scelta da parte di chi è tossico dipendente – cioè una persona che necessita di supporti psicologici adeguati. Arriva un morto, ne arrivano due, la rimessa in discussione della presenza di un intero apparato mediatico e di consenso costruito attorno alla figura del suo fondatore, di chi ne supportava la rete con un meccanismo di immedesimazione troppo rischioso per essere lasciato allo sbando nei reparti definiti di macelleria.
Nel 1995 avevo 14 anni, ricordo la figura di Vincenzo Muccioli sbiadita, mentre quella di San Patrignano molto più nitida, chiara come anche le prime riviste che parlavano a noi adolescenti di preservativi, di virus dell’HIV e di AIDS. Sulla base della mia esperienza di pubblico, e da donna di quasi quarant’anni, oggi, posso dire che è rimasta di quei tempi l’idea della comunità più che la complessità della figura che la ha generata.
Nella visione, l’elemento che più di altri mi ha fatto rabbrividire è stata la mancanza di forza di quei genitori, di chi abbandonava i propri figli nelle mani altrui. La disperazione con la quale le donne ne reclamavano la necessità, l’affidamento di chi avevano generato a uno sconosciuto; l’essere incapaci di reagire davanti a una forma di vita che loro stessi avevano messo al mondo e plasmato. La fede riservata al capo massimo – un narcisista – padre di tutti quei ragazzi che oggi sono suddivisi tra chi lo elogia e chi lo rinnega. Mi fa pensare molto a quanta debolezza psicologica e di reazione c’era in una famiglia, a quanto quella condizione di vita doveva apparire come vergogna, indegna per essere raccontata senza sentirsi umiliati nel profondo dal giudizio su di sé e da quello che arrivava dall’esterno.
La punizione, la disciplina, il silenzio. Questo docu-serie arriva in un momento preciso: quello della pandemia. Nella letteratura Febbre di Jonathan Bazzi parla del legame con un padre inesistente, l’hiv e l’aids; in tv si elogiano programmi come il Collegio e l’arrivo prossimo di Caserma e di un altro format intitolato il Convento; i social network sono strumenti ancora troppo complessi da tradurre e dove la componente di manipolazione psicologica è altissima. Nel mercato il rapporto tra chi vende e chi acquista è di completa sudditanza.
Sanpa è un progetto culturale coraggioso, scava nel profondo e stabilisce un punto. Adesso è negli occhi di noi spettatori capire i segnali per fermarsi un attimo prima davanti a chi potrebbe avere la soluzione miracolosa senza la chiarezza massima in mezzo a questo mare magnum community che fioriscono giorno per giorno.
Non sono spaventata dal futuro, ma le ferite da ricucire sono troppe e numerose, io credo sia il momento giusto tamponarle, saturarle e vaccinarsi per essere pronti davanti a qualcosa che ci è ignoto: l’avvenire.
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