Scrivo questa recensione ascoltando un vecchio brano dei C.S.I del 1993, A Tratti. Bisogna soffermarsi sul testo e concentrarsi per alcuni minuti. Di tutte le parole lanciate in chiave mantrica, decantate da Giovanni Lindo Ferrenti, c’è un punto in cui si fa riferimento a toghe e tonache. Questo passaggio mi ha permesso di trarre ispirazione per l’articolo dedicato ad Agnus Dei di Anne Fontaine.
Il film è molto duro. Distribuito la settimana scorsa, eravamo io assieme a una coppia di signori nella sala più reclusa del cinema, quella dotata di 15 posti, a visionare una storia raccontata in maniera sublime, vista la tragicità del tema. La sceneggiatura è ispirata a fatti veri, accaduti in Polonia nel 1945. Un gruppo di suore cattoliche fu completamente violato nell’intimità da un gruppo di soldati sovietici che invasero il loro convento abusando dei loro corpi. A rivelare la situazione una dottoressa giovane francese, chiamata d’urgenza, dopo la fuga di una sorella dal convento poiché custode di un segreto lacerante.
L’elemento interessante dell’intero progetto è l’uso della luce. Esiste una grande distinzione tra le riprese esterne e interne. Il bianco della neve rende accecante la vastità di vedute quando si è fuori, in fuga da qualcosa, tra le betulle, mentre nelle parti al chiuso è silenziosa, poggia la sua leggerezza sui visi delle protagoniste, rendendole eteree, quasi beate. La concatenazione di queste sequenze porta verso un mondo altro, rinascimentale, per incanto e drammaticità dei contenuti. Non so che riferimenti abbia sfruttato la regista per comporre le inquadrature, ma ho percepito autori italiani e fiamminghi, relazioni che colpiscono per incisività e durezza nei tratti.



Tornando a Lindo Ferretti, il collegamento che ho trovato è quello che avviene in una battuta precisa della pellicola, quando si dialoga sul ruolo distinto di avvocati e medici, come a dire, i primi chiacchierano, i secondi agiscono. Il punto di vista tra le due professioni rappresenta un dato centrale che si innesta con il concetto di sacrificio. Agnus Dei, “Agnello di Dio” – “che togli i peccati del mondo” – come recita la famosa liturgia – è una figura, un’immagine salvifica per l’umanità, di colui che porta la croce e si immola per noi esseri umani. Una scelta dura, che mette in atto il significato pieno del concetto di giustizia per una rinascita.
Il film lavora sulla figura del Giusto, di un dare e un avere, un dono, alla pari. Mette in crisi la facoltà di parola appartenente al diritto, scritto, concentrato, interpretato, più su una azione esecutiva, che di accoglienza, di un diverso o uno sbagliato. Come se la virtù religiosa che regola tutti i nostri comportamenti fosse in realtà un’utopia non diversa da un’ideologia che guida un movimento o comportamento politico.
Affermo questo a seguito della visione, poiché il ruolo della madre badessa non è differente rispetto a quello dei soldati comunisti: la spietatezza che li guida nella applicazione della regola è la stessa. Si tratta di un dogma, di una appartenenza su cui si è fondata la propria scelta di vita, non per devozione, almeno non nella sua fase iniziale, ma per adesione a un modello ideale di mistificazione divino e politico (Bibbia/Manifesto).
Lo dico, poiché altri due momenti rompono muri e aprono a varchi. La dottoressa si trova a vivere un tentativo di aggressione da parte dei russi in una notte qualunque, e mentre cerca di raggiungere la postazione ospedaliera della sua base, assapora sulla propria pelle la volgarità di mani estranee, che cercano di infrangere un limite, rompere a forza una distanza in un contatto con l’altro. L’empatia sgretola l’opposizione a una resistenza, a quel rifiuto delle suore alle visite ginecologiche che cercava di compiere per guarirle, e dopo questo accadimento, capisce sulla sua pelle il senso di umiliazione che le altre donne provano nell’invadenza di uno spazio su cui versava l‘aggravante del peccato, il voto di promessa a Dio. L’altro punto di ricongiungimento è quello di una confessione, in pratica, una suora russa (dalle vedute libertine) parla di come tra quei soldati invasori ci fosse in realtà il suo compagno. Mentre le altre venivano infrante, lei ne approfittava per ottenere sbadatamente un bambino dall’amato soldato sovietico. Quest’ultima compie una truffa, un doppio gioco per fini egoistici, che rivela molto nella diversità di fiducia che distingue i russi e i polacchi all’origine.
In tutta la produzione si è circondati da bambini messi a margine, frutto di abbandoni, sottrazioni in qualche modo lontane da una propria libera volontà. Emerge un forte disagio, e la domanda che ricorre più spesso è quella legata alla loro fine. Il frutto di un tradimento e di una deturpazione di un’anima che valore ha? puo’ meritare la vita? e quanto è attuale questo discorso?
Anne Fontaine sembra alludere a qualcosa, alla netta distinzione di chi è capace di raccogliere i suoi figli, quelli degli altri, abbandonati, nati in condizioni drastiche, far capire che la vita ha un valore che non ha colpe. Espone la storia (con e senza maiuscola) al rispetto e alla venerazione di una o più madri partendo dal concetto di concepimento e portandolo in alto, a elevazione, spogliandolo dal titolo reverenziale di compianto, inserendo l’ebraismo, aprendo alla verità e al perdono. Lo fa senza abbandonare la morte, lo fa rispettando gli eventi che stanno attraversando la Polonia in questo momento, dove le donne, vestite a nero, si ribellano ai mutamenti sociali delle volontà governative.
Anne Fontaine, Agnus Dei, Francia, 2016
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