Lo straniero di Albert Camus (Bompiani, 1947/2016) arriva nella mia vita in una scelta fatta per caso in libreria. Non avevo preso mai nulla di questo autore, anche se le persone a me vicine non facevano altro che consigliarlo. Senza pensarci troppo l’ho acquistato. Sono passati alcuni giorni, ma è stato un gesto istintivo avviare la sua lettura.
Lo straniero è un libro che ha poco a che fare con l’esistenzialismo di Jean Paul Sartre, lontano dalla trappola del processo kafkiano. E’ un testo inerme, passivo, dotato di una stesura raffinatissima, non cristallizzata. Non è possibile allontanarsi dal volume tanta la forza semplice dello stile nell’attrarre il lettore.
Il protagonista è vittima degli eventi: un non resistente; accoglie le situazioni che gli capitano dalla morte della madre come nulla fosse.
E’ proprio con un innesco dichiarato nella sua prima riga che inizia il risveglio: l’osservazione di una vita piatta, ripetitiva, abbandonata alla noia, all’abitudine, che porta a persone, cose e fatti, senza valore. Alla scoperta di situazioni che lui non aveva mai vagliato, cui si era reso complice, senza un motivo dichiarato, passivo al giudizio, in un senso di colpa e sospetto, interrotto dalla presenza di Marie, una donna che lo ha fatto sentire vivo per la prima volta, meritevole di felicità.
L’evento che crea lo sconvolgimento è l’uccisione di un arabo su una spiaggia in un momento in cui la sua vita sembra assemblare a una normalità – o almeno, a quella cosa che potrebbe essere definita tale, secondo i canoni comuni di condivisione sociale.
L’autore mostra un antefatto e un fatto suddividendo il testo in due parti, guida a un risultato sconvolgente; lascia inerme il lettore proprio sulle battute finali per durezza, rabbia, disperazione e angoscia in un dialogo esplosivo con un sacerdote, durante una confessione che viene rifiutata nel momento in cui sta per avvenire una esecuzione finale.
E’ paradossale la calma che Albert Camus riesce a costruire, far parlare di un omicidio senza avere un briciolo di pentimento nell’efferatezza del gesto, creare una distanza rispetto ai fatti. Non si rende conto, il personaggio, del distacco che crea negli altri, come se egli avesse eretto un antro-condanna per proteggersi. E’ disturbato dalla luce perenne del sole, ne osserva tutte le sfumature, le riconosce, le sente come peso e afflizione continua. Un combattimento costante, tra un buio radicato e un sole che lo insegue incalzante.
La prigione è l’ospizio in cui è ospitata la madre, dove il figlio la porta a stabilirsi e morire nella totale indifferenza; la stessa prigione che lui sceglie come sua condanna, generata dall’assenza di un padre sadico che lo ha reso immaturo e immotivato nella scelta, condotto alla morte per opera di una devozione/deviazione nella ricerca di una sublimazione che avviene nella tortura.
In alcune descrizioni sembra di essere collocati in alcune scene di The Tree of life di Terrence Malick, quando Sean Penn vaga in questo paradiso artificiale di perdoni e pentimenti raggiungendo la sua pace nella volontà della grazia (Eternity). Quelli che hanno vissuto l’adolescenza negli anni Novanta, invece, in un brano dei 99 Posse, situato nell’album Cierco tiempo, Spara. (clicca).
Oggi, si è innescata in me la necessità di capire le parole di Julia Kristeva tratte da Stranieri a noi stessi. L’Europa, l’altro, l’identità.
Sempre sulla tematica dei padri violenti, mancanti, ho visto in settimana il film di Kim Rossi Stuart, Tommaso. Il regista sdogana in malo modo tutti i personaggi di Nanni Moretti dal suo narcisismo, per mostrare quello che centinaia di autori nella letteratura mostrano da sempre: il problema di una radice e il suo relativo tradimento.
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