È accaduto stanotte che ho finito la lettura di Febbre di Jonathan Bazzi (Fandango, 2019).
Uno dei libri candidati al Premio Strega 2020.
La storia è imponente, ambientata nella provincia milanese, luogo di odio e crescita, rifugio custode per l’attualità che è il futuro.
L’infanzia, l’adolescenza, l’età adulta: l’esagerazione. Il libro saltella tra passato e presente, descrive traumi precisi: la sfortuna di essere dentro una famiglia che non esiste, la presenza di una madre che con mille errori è presente. Un padre che vuole essere al centro della scena con il suo narcisismo spudorato e assente, malato anche lui nello stesso momento del figlio.
L’autore parla di un virus, dell’Istituto Sacco di Milano, racconta le ragioni che lo portano a capire cosa ha contratto il suo corpo.
Quanto è contemporaneo adesso in piena fase covid sentire parlare di questi luoghi che abbiamo iniziato a conoscere per via della loro utilità sociale nella ricerca?
Il tema è la sieropositività.
HIV o Aids. È un compendio che non abbiamo mai avuto, che illustra molti dei processi da fare per reagire nella accettazione di una malattia che esiste ed è presente tra noi, come un cancro o l’ipotiroidismo autoimmune, ma sottaciuta. Qualcosa che genera una dipendenza da farmaco nel tempo, trasforma la tua vita a dei ricami, vincoli e ritmi precisi, come le altre.
Il cuore delle parole di Bazzi è la sofferenza di una verità marchiata addosso, che non ha genere, ma condizione universale pompata dal pregiudizio su qualcosa che deve essere ancora etichettato o marchiato per scambrosità.
Si parla del mondo gay, ma è un dettaglio. Il genere, l’orientamento, sono strutture che vincolano la nostra visione di mondo, come se dovessimo riconoscerle per scansare, far finta di non essere, per paura di essere.
Accertarsi.
Mi è piaciuto l’accostamento della balbuzia: un distrubo che ti connota nel mondo come una febbre che apre le piste a qualcosa che ti riconnette al mondo.
Jonathan Bazzi è.
Lo consiglio a chi ha paura di essere.
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